Nella Roma delle origini il vino non era alla portata di tutti, costava molto ed era un lusso riservato ad un’élite privilegiata. Potevano goderne i capi famiglia ed i maschi adulti, mentre alle donne era severamente proibito da una delle prime leggi, che Dionigi di Alicarnasso attribuisce addirittura a Romolo, che accomunava il bere vino ad un rapporto sessuale illecito, punito con la condanna a morte! Fu solo verso la fine dell’epoca repubblicana che le matrone romane cominciarono a poter accompagnare i loro uomini ai banchetti.
Con l’espansione di Roma in seguito alle conquiste territoriali la cultura del vino conobbe un’ulteriore diffusione. Furono i militari romani, seguendo precise regole imperiali, ad esportare la coltivazione della vite. Il consumo a Roma divenne man mano quotidiano grazie allo sviluppo della produzione intensiva su vasti latifofondi, che furono predisposti all’inizio in centro Italia e poi soprattutto nelle province, in particolar modo in Spagna ed in Gallia. Dai loro porti affacciati sul Mediterraneo, così come da quelli della Grecia, dell’Asia Minore e del Marocco, partivano navi cariche di anfore che trasportavano il vino verso i più grandi centri di consumo. Ed era certamente Roma che ne assorbiva i maggiori quantitativi: si stima che nell’Urbe ogni anno confluissero 1.600.000 hl di vino! Fiumi di alcol per dissetare i palati di un consumo che ormai, in epoca imperiale, era diffuso in maniera trasverale in tutta la popolazione.
Il vino si era trasformato progressivamente in un bene di largo consumo e durante il regno di Aureliano arrivò pergiunta ad essere distribuito a prezzo ribassato a quei fortunati romani ai quali veniva già offerto gratuitamente olio e grano.
Il vino acquista così il suo vero significato universale come elemento culturale.
L’uso del vino è rappresentato come una prova, un’esperienza positiva necessaria alla vita sociale, un mezzo rivelatore di verità, utile per conoscere il carattere dell’altro e per sperimentare la propria temperanza.
I Romani non bevevano vino “puro”, bensì mescolato all’acqua. Le proporzioni tra i due elementi non erano necessariamente costanti, ma nemmeno casuali. Durante il simposio un coppiere, detto “magister bibendi”, spesso sorteggiato tra gli invitati, decideva in che proporzioni e a quante coppe aveva diritto ogni invitato. Seguendo la sua particolare disposizione e propensione all’alcol, il magister bibendi stabiliva, il tasso etilico da imprimere alla serata.
Le diluizioni più comuni contavano tre parti di acqua e una di vino, o due di acqua e una di vino, mentre la quota uno a uno era ritenuta una miscela pericolosa!
Durante i banchetti i vini migliori si servivano all’inizio, poi la qualità scemava gradualmente. Tra i vini rossi più apprezzati c’era il Cecubo, prodotto nelle paludi pontine nell’area di Minturno-Fondi; tra i bianchi il Falerno, nel casertano. Meno ricercati ma abbastanza apprezzati erano i vini di Albano; le fonti ci parlano anche di vini dolci, come il Passum, prodotto da uve moscate.
Tra i vini di importazione sono ben documentati quelli delle isole egee ,in particolar modo Rodi, Kos e Creta, e i vini provenienti della Catalogna e dalla Betica (Andalusia). Infine, quelli forse più diffusi in epoca imperiale, arrivavano dalla Gallia Neborense (Provenza). Ed è proprio nel sud della Francia che vide la luce la “barrique” un’invenzione pensata per proteggere i carichi delle anfore in terracotta dalle tempeste in mare, ma destinata ad avere grande fortuna.
Così come per il commercio del grano e dell’olio, l’entrata del vino nella vita quotidiana degli abitanti dell’Impero va dunque inquadrata in fenomeni più ampi, come lo sviluppo dei grandi centri urbani nel Mediterraneo, il diffondersi di coltivazioni intensive, la possibilità di commercio marittimo su larga scala, l’unità monetaria e la stabilità politica che favoriva gli scambi commerciali via mare.
Tra le acque del Mediterraneo antico scorrevano fiumi di vino e “le correnti portavano tutte a Roma”, per dissetare i palati di un consumo divenuto ormai trasversale in tutta la popolazione. Al punto che, quando correvano voci su una possibile carestia di vino, la plebe poteva insorgere contro coloro che ne controllavano l’approvvigionamento, come accadde nel 377 d.c. contro il prefetto dell’Urbe Simmaco, che si vide bruciare la casa dalla plebe inferocita: Ammiano Marcellino racconta che la causa della rivolta fu la diceria, messa in giro da un plebeo, che Simmaco avesse affermato, durante il proprio mandato di prefetto, che avrebbe preferito piuttosto “estinguere col suo vino le fornaci di calce, anziché venderlo al prezzo che la plebe sperava”; la folla inferocita, reagì scomposta e gli mise a fuoco la casa trasteverina!
Come sempre, in vino veritas.