Tradizioni dure a morire: olio d’oliva, un “made in Italy” dal marchio antico

Nel mondo romano l’olio non serviva unicamente a scopo alimentare: grandi quantità ne venivano usate per l’illuminazione, il riscaldamento, la cosmetica, in ambito medico e nelle officine artigianali.

Nel mondo romano l’olio non serviva unicamente a scopo alimentare: grandi quantità ne venivano usate per l’illuminazione, il riscaldamento, la cosmetica, in ambito medico e nelle officine artigianali.

L’olio era quindi il motore di una grandissima quantità di attività, potremmo dire il petrolio dell’antichità! Da quanto apprendiamo dalle fonti, ne esisteva una gran varietà.

In epoca augustea, l’olio africano godeva di scarsa fama ed ere ritenuto, almeno da Plinio “buono più che altro per le lampade”. Quando invece si trattava di cibo, ieri come oggi, i buongustai mostravano una netta preferenza per l’olio d’oliva italiano: quello che veniva prodotto il Liguria, in Istria, ma soprattutto quello di Venafro, in Molise. Quest’ultimo doveva essere un’eccellenza se lo raccomandano Orazio, Marziale, Giovenale, lo stesso Plinio e persino il greco Strabone.

Le cose tuttavia stavano diversamente a livello dei consumi di massa: la collina delle anfore di Testaccio, una discarica alta 36m, costituita da frammenti di milioni di anfore accatastate tra il I e il III d.c. in prossimità dell’Emporium, testimonia una massiccia importazine di olio proveniente dalla Betica, l’odierna Andalusia.

L’olio spagnolo dovette quindi dominare il mercato romano rivolto al consumo popolare dalla prima età imperiale, fino al II secolo, per poi essere affiancato ed infine cedere il passo al tanto bistrattato olio africano che, come abbiamo visto, godeva di pessima fama.

Questo fenomeno si spiega alla luce delle vicende in corso nelle province dell’Africa Proconsolare, dove l’espansione romana aveva dato inizio ad una vera e propria trasformazione del paesaggio agrario. Qua i Romani iniziarono ad incentivare l’olivicoltura africana a partire dai contratti agricoli e poi con leggi ed esenzioni, prima nell’entroterra cartaginese (Tunisia), quindi in Tripolitania (Libia) e in Mauritania (Marocco).

Un processo di “colonizzazione agraria” che non aveva più nulla a che vedere con i sistemi di produzione e di lavoro schiavile collaudati nelle ville rustiche dei territori italici.

Le famiglie senatorie che si erano spartite il territorio dei Cartaginesi vinti, miravano ora ad uno sfruttamento agricolo intensivo finalizzato all’approvvigionamento del mercato italico.

L’Italia, allora come oggi, smetteva di produrre grandi quantità di olio, per importarlo dall’estero: intorno al 140 d.c. il Procuratore dell’Annona, di cui abbiamo già parlato a proposito del grano, divenne responsabile anche dell’approvvigionamento dell’olio per Roma, che veniva importato nella misura di almeno 260.000 anfore, pari a circa 156.000 ettolitri ogni anno!

Quando poi l’imperatore Settimio Severo, un africano nato e cresciuto a Leptis Magna, concesse distribuzioni gratuite di olio alla plebe romana, possiamo essere sicuri che l’olio che i cittadini cittadini dell’Urbe ritiravano presso le mensae olearie disseminate in città fosse proprio olio africano!