Sfamare l’Impero: il commercio del grano

Nutrire Roma, città che nel suo apogeo arrivò a toccare un milione di abitanti, costituì una vera e propria impresa, di cui le istituzioni dovettero presto farsi carico.

Nutrire Roma, città che nel suo apogeo arrivò a toccare un milione di abitanti, costituì una vera e propria impresa, di cui le istituzioni dovettero presto farsi carico.

A differenza delle navi da guerra che le appartenevano, Roma non ebbe mai una flotta mercantile di Stato: per il trasporto degli alimenti che arrivavano come tributo dall’intero Mediterraneo, l’Urbe si affidava ad appalti aggiudicati ad armatori privati (navicularii), che però potevano essere anche mercanti in proprio (negotiatores), rivelando dunque un organizzazione dei commerci mista e piuttosto liberale.

I prodotti maggiormente importati che costituiscono la cosiddetta “triade mediterranea” sono grano, vino, olio.

Oggi parleremo di Grano.

Il trasporto del grano da parte dello Stato divenne un dovere di alcune categorie, che in cambio ne ricevevano dei privilegi.

Gli armatori ad esempio ebbero ricchezze ed esenzioni, ma vennero anche obbligati a vincolare sé stessi, i loro eredi ed il loro capitale, al trasporto periodico di beni per conto dello Stato.

Siamo ancora in epoca repubblicana quando con la “lex frumentaria” di Caio Gracco nel 123 a.c. , la res publica riconosceva come suo compito ineludibile quello di provvedere alla distribuzione mensile gratuita di grano ai maschi adulti, di status cittadino, presenti a Roma.

All’inizio della sua storia Roma attinse le sue risorse direttamente nei territori italici. Già però sotto il regno di Augusto assistiamo ai sintomi di un graduale processo di inversione di tendenza, con l’accrescimento progressivo del volume di esportazioni di derrate alimentari dalle province: dapprima dalla Spagna e dalla Gallia, ed in seguito dall’Africa Proconsolare che, a partire dal III d.c. assunse il ruolo incontrastato di potenza egemone.

In epoca imperiale, per garantire un regolare afflusso di grano nella città, Augusto istituì l’amministrazione dell’Annona: al vertice di questa istituzione vi era un magistrato di alto rango, il Praefectus Annonae, che nominato direttamente dall’imperatore, restava in carica senza limiti di tempo e gli garantiva fedeltà assoluta.

Per semplificare il processo di importazione del grano, il prefetto annonario si avvaleva di due uffici esteri ad Alessandria d’Egitto e in Numidia e di un procuratore dell’Annona operante ad Ostia, dove confluiva il grano fiscale, ovvero il contributo fiscale pagato “in natura” dalle province.

Il prefetto dell’Annona era legato a doppio filo all’imperatore: veniva pagato direttamente dal fisco imperiale e non dallo Stato, divenendo progressivamente una figura centrale per comprendere la “politica della gestione del consenso” fortemente perseguita dal primo imperatore di Roma.

Dalle analisi degli studiosi sembra che in questo periodo la plebe frumentaria ricevesse ogni mese dallo Stato a titolo gratuito, 35 kg di frumento, una quantità che trasformata in pane risultava più che sufficiente per il sostentamento individuale.

Queste vendite, organizzate dallo Stato con il prodotto delle tasse, miravano ad abbassare i prezzi del mercato romano.

Si trattava però di un diritto/privilegio del popolo dominante: i beneficiari erano i cittadini maschi adulti, residenti a Roma, nati liberi; liberti, donne e bambini e residenti maschi non domiciliati in città ne erano esclusi.

L’amministrazione dell’Annona si interessava delle quantità richieste dalle distribuzioni, e non di tutte quelle necessarie a soddisfare i consumi complessivi della popolazione di Roma; quest’ultimo compito spettava all’apporto dei privati e del mercato.

Il commercio di grano si avvaleva dunque di un sistema misto: i prezzi erano controllati dalle autorità, ma il commercio era appaltato ai privati.

Gli studiosi hanno proposto una stima del volume delle merci necessarie al rifornimento annuo di Roma sotto l’Impero che equivale a 350.000 tonnellate di grano!

Durante l’alto Impero il tributo granario venne prodotto e pagato per 1/3 dall’Egitto e per i restanti 2/3 dall’Africa soprattutto Tunisia, Algeria e Libia.

Secondo una fonte anonima del IV secolo d.C., sotto Augusto, l’Egitto inviava ogni anno a Roma 20.000.000 modii di grano, vale a dire circa 140.000 tonnellate.

Secondo Flavio Giuseppe, all’epoca di Nerone, il grano egiziano nutriva Roma per quattro mesi.

A questo proposito Seneca, nel 64 d.c. , ci racconta l’episodio dell’arrivo della flotta del grano da Alessandria a Pozzuoli, il primo porto di Roma per le imbarcazioni di grandi carichi. L’emozione che si impadroniva della folla ci aiuta a comprendere come il popolo lo ritenesse un evento fondamentale nella vita della città, sinonimo di abbondanza e prosperità dei suoi abitanti.

Le navi commerciali erano scortate da imbarcazioni da guerra, necessarie a sorvegliare il prezioso carico, e precedute da navi tabellariae, che annunciavano l’arrivo della flotta che avrebbe liberato la plebe dalla fame:

“Oggi sono comparse improvvisamente le navi alessandrine, che di solito precedono la flotta e ne preannunciano l’arrivo: si chiamano “navi staffetta”. In Campania le vedono arrivare volentieri: tutta la popolazione di Pozzuoli si accalca sul molo e anche in mezzo a tante navi riconosce quelle alessandrine dal tipo di vele: solo a esse è consentito spiegare la vela di gabbia che tutte le navi alzano in alto mare. Non c’è niente che favorisca la velocità della nave quanto la parte alta della velatura; è da qui che la nave riceve la spinta maggiore. Perciò quando il vento cresce ed è più forte del dovuto, l’antenna viene abbassata: in basso il soffio ha meno forza. Quando arrivano in prossimità di Capri e del promontorio da cui Pallade su una cima tempestosa guarda dall’alto, le altre navi devono ridurre la velatura: la vela di gabbia è il segno distintivo delle navi alessandrine”.

(Seneca, Epistole, 17)